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“J. Edgar”, di Clint Eastwood (2011)


Quello che leggerete tra qui e la locandina sono le principali note biografiche di John Edgar Hoover, forse l’uomo più potente degli Stati Uniti d’America di tutto il secolo passato, nonché uno tra i più controversi personaggi pubblici della sua era. Da giovane impiegato del Dipartimento di Giustizia, assegnato al Bureau of Investigation ne divenne presto il direttore, segnandone la storia con una fitta serie di interventi radicali che ne consentirono una crescita esponenziale quale strumento di lotta alle più pericolose minacce del XX° Secolo alla democrazia statunitense: a livello politico i comunisti, i radicali e i sovversivi, e sul piano più proprio della sicurezza pubblica i gangsters degli anni ’30 e successivamente la mafia.
Sfruttando la grandissima eco emotivo-mediatica legata alla vicenda del rapimento del figlioletto del celebre trasvolatore Lindbergh, Hoover amplificò i poteri della sua agenzia ottenendone l’elevazione a livello federale (F.B.I.), e accattivandole definitivamente il ruolo di indispensabile paladina della popolazione dinanzi al dilagare del crimine. Nel dopoguerra, a seguito dell’intervento della Suprema Corte volto a limitare il potere investigativo e persecutorio del Bureau nell’ambito della lotta al comunismo (maccartismo), diede vita a un programma segreto, il COINTELPRO, volto a sorvegliare, anche mediante infiltrazioni, screditare e distruggere le organizzazioni di politica interna ritenute sovversive. L’ambito d’azione del progetto toccò sia celebri simpatizzanti comunisti (Charlie Chaplin il più noto), sia movimenti di lotta per i diritti civili quali quelli delle Black Panther e di Martin Luther King, attraverso l’utilizzo di mezzi finanche illegali e violenti (con l’accusa di coinvolgimento in veri e propri assassinii).
Hoover riuscì a sopravvivere a sospetti ed attacchi aggrappandosi a una fitta e sistematica opera di spionaggio a danno di personaggi importanti della scena non solo politica americana, ciò che portò alla raccolta di un cospicuo archivio di informazioni molto personali riguardanti soprattutto le abitudini sessuali e gli orientamenti politici alternativi di celebrità fino al rango dei vari presidenti degli USA e rispettive consorti. Questo gli permise di conservare per ben 48 anni, dal 1924 sino al momento della morte intervenuta nel 1972, la carica di direttore della F.B.I., e di godere di un potere senza pari e apparentemente sconfinato. La sua autobiografia, consegnata ai posteri sotto dettatura, ne ha raccolto molta parte della carriera, rimanendo però non propriamente scevra di mistificazioni.
Poche sono le notizie trapelate, nel corso della sua esistenza come successivamente, circa la sua vita privata. Rimasto scapolo, fu incapace di sottrarsi alla forte influenza di una madre dominante, con la quale rimase a convivere nella casa di famiglia. Pare che provò ad accasarsi un paio di volte: corteggiando invano Helen Gandy, che ne rifiutò la mano ma divenne sua personale e fedelissima segretaria; e frequentando l’attrice Dorothy Lamour prima, e la madre di Ginger Rogers più tardi, senza sviluppi sentimentali. E molto controverse sono le voci su una sua più o meno latente omosessualità, ispirate probabilmente dalla infinita dose di invidie e cattiverie ingenerate dal prolungato esercizio del potere, ma anche alimentate dal particolare rapporto tenuto con il suo vice e braccio destro di sempre, Clyde Tolson, col quale per lunghissimi anni condivise lavoro a stretto contatto, pasti, vacanze e divertimenti, e che pur ora giace a pochi metri dalla tomba di Hoover al Cimitero del Congresso. Tutto questo è lucidamente contenuto nell’ultimo film di Clint Eastwood, detto senza timore di spoiler e con l’intento di favorire un approccio “informato” all’opera.

E’ evidente come la vecchiaia stia ispirando i temi affrontati dal mitico regista californiano negli ultimi suoi lavori, e in particolare il rapporto con la morte. La scelta di morire in Million Dollar Baby, l’avvicinarsi inesorabile all’epilogo della vita in tempo di guerra (Lettere da Iwo Jima) e di pace (Gran Torino), il sentimento dell’Aldilà (Hereafter). E adesso un ideale esame di coscienza, attraverso la revisione di una delle esistenze statunitensi più importanti del secolo passato, con l’attenzione rivolta alla definizione di un’eredita da lasciare ai posteri.
Perché certamente J. Edgar è una sorta di biopic, un racconto degli eventi maggiori che hanno segnato l’esistenza di Hoover, necessariamente sintetico data la vastità degli argomenti. Ma, più di ogni altra cosa, è una riflessione sulla (in)capacità dell’uomo di dominare la storia, di governare l’immagine di sé stesso nel corso e al di là della propria vita.
Questa la chiave di lettura che emerge dal vero filo conduttore della sceneggiatura, quello della ridondante proposizione delle scene in cui Hoover si ostina a dettare, spesso alterando la verità, le proprie memorie allo scribacchino di turno, puntualmente sostituito nel momento in cui manifesta cenni di mancata adesione al punto di vista del direttore. Che però viene smentito più volte sia dalle sequenze relative agli episodi via via raccontati, sia nel drammatico dialogo tra J. Edgar e Tolson che prelude al finale del film, in cui emerge in tutta evidenza il tema della condizionante, sterilizzante (in senso generativo) convivenza di “Io” e “Maschera” nel protagonista della vicenda.
Inutile attendersi la visione di qualcosa di sentimentalmente appassionante, perché ciò che costituisce lo straordinario punto di forza del lungometraggio coincide precisamente con il suo inevitabile e coraggioso momento di maggior debolezza. Raccontare la vita di un uomo ambizioso, geniale, lungimirante e tenace, ma al tempo stesso geloso, invidioso, meschino e protervo, che ha vissuto in funzione della conservazione dell’opinione della persona che più temeva (la madre), della sopravvivenza della creatura che ha amato sopra tutto (l’F.B.I.), e dell’artificiosa costruzione di un’immagine di sé irreprensibile ad ogni costo agli occhi tanto dei contemporanei quanto dei posteri, non può non implicare la scelta di toni cupi, di atmosfere indefinite, di contorni incompleti, sospesi, dissimulati, illusori. E pedissequa è la sensazione che resta allo spettatore al termine della visione, dominata da un alone di indecisione ed incertezza, affamata di “perché”, di riflessioni che vorrebbero investire il senso del film, ma che in definitiva dovrebbero risolversi, secondo l’intento del regista, su quello della propria condotta di vita.
Tale disegno è espresso e sottolineato dalla perfetta fotografia di Tom Stern, superlativa nella illuminazione delle predominanti scene d’interni, e dalla regia asciutta e precisa di un sempre sicuro Eastwood, degno esecutore di quella che è senz’altro la componente più importante ma anche più complessa dell’opera, la sceneggiatura di Dustin Lance Black (sceneggiatore già premio Oscar per Milk di Gus van Sant), il cui maggior pregio è quello di evitare una classica sequenza cronologica degli eventi, che avrebbe appesantito irrimediabilmente il racconto, a vantaggio di una sapiente distribuzione di salti temporali con cui si alternano fasi storiche e momenti privati (questi più suggeriti che affermati).
E impressionante è il lavoro di un sempre più stupefacente Leonardo Di Caprio, capace di rendere magistralmente, anche sul piano fisico (con l’ausilio di un trucco notevole per le parti di Hoover invecchiato), le aspirazioni, i tormenti, le debolezze e le auto-mutilazioni di un personaggio estremamente controllato e composto nelle sue manifestazioni, caratterizzato da un accennato ma sensibile balbettio nei momenti di maggiore imbarazzo. E’ facile immaginare che possa correre da favorito per l’Oscar quale miglior protagonista, anche se la concorrenza sarà importante.
Belle anche le interpretazioni di una Naomi Watts quasi irriconoscibile nei panni della segretaria Gandy, fedele al ruolo del personaggio e convincente, e di Armie Hammer (ricordate i gemelli Winklevoss in The Social Network? Lui era Cameron, quello più “sveglio”!) un Clide Tolson dalla latente ambiguità sempre rivestita di uno stile impeccabile. E poi l’affermatissima Judy Dench, perfetta nel ruolo della madre ferrea e dominante, benché non assillante.
La produzione unisce al nome dello stesso regista quelli di Brian Grazer e Ron Howard (premi Oscar assieme per A Beautiful Mind), e di Robert Lorenz che, oltre a collaborare costantemente con Eastwood dal 1994, sarà regista del film che segnerà il rientro da attore sulle scene del grande Clint, in uscita per il prossimo anno!
J. Edgar è un’opera complessa, per quanto detto finora, straordinariamente assemblata e realizzata, per niente superficiale e ancor meno banale, per palati sopraffini. Se la prima impressione è quella di un film non incisivo, al contrario lancia temi stimolanti e tracce che, a seguirsi, solcano in profondità il pensiero dello spettatore. Il voto è 9: notevole!

A Dangerous Method


Il turbolento rapporto tra il giovane psichiatra Carl Gustav Jung (Michael Fassbender), il suo mentore Sigmond Freud (Viggo Mortensen) e Sabina Spielrein (Keira Knightley), paziente del primo.

Psiche e sogni. Sesso e morte. Eros e Thanatos. Un universo in cui perdersi e liberarsi, perchè reprimere la nostra vera natura? Una pellicola che lascerà un pò interdetti  i fan di Cronenberg,  ma apprezzabile, se non di più, da tutti quelli a cui interessa l’argomento. I vertici di questo mènage psicoanalitico sono stati raggiunti alla presenza del dottor Sigmund Freud (Viggo), che vive in modo dimesso con la moglie e i suoi 6 figli (dei quali una, Anna, divenne psicoanalista ed ebbe in cura tra i suoi pazienti perfino Marilyn Monroe), agli antipodi di Jung, e noto per essere un fumatore di sigari incallito. Knightely alla sua migliore interpretazione, anche se il suo ruolo non resta indimenticabile e Fassbender adeguato. Sceneggiatura di Christopher Hampton.

di Barbara C. T.

Il Divo


Dalla fine del suo ultimo governo nel 1992 al processo di mafia da cui usciraà assolto: il declino del potere di Giulio Andreotti (Toni Servillo) e della sua corrente, che comprende tra gli altri Cirino Pomicino (Carlo Buccirosso), Franco Evangelisti (Flavio Bucci), Vittorio Sbardella (Massimo Popolizio) e Salvo Lima (Giorgio Colangeli), ucciso dalla mafia nel 1992.
Sorrentino, anche sceneggiatore con la consulenza giornalistica di GIuseppe D’Avanzo, intreccia pubblico e privato (il rapporto con la moglie Livia [Anna Bonaiuto] e la fedele segretaria Enea -Piera Degli Espositi-; e alterna scene ipotetiche (il presunto incontreo di Andreotti con Totò Riina) e altre basate sui fatti (il rapporto con Aldo Moro -Paolo Graziosi-). Non intende stabilire la verità sulle tante responsabilità dello statista democristiano (dall’omicidio Pecorelli alla loggia P2), ma tracciare un affresco dell’Italia della Prima Repubblica. E per capire la politica, non ricorre alla denuncia, ma alla deformazione grottesca e iperrealista, forte di uno stile pirotecnico che inventa soluzioni diverse per ogni sequenza. Il “divo” Giulio ne esce in tutta la sua ambiguità, volta a volta rimpicciolito (come quando la moglie ridimensiona la sua celebrata intelligenza) o ammantato da un’aura fosca e tragica. Ma Sorrentino non cede alsuo fascino, e sa smontare le implicazioni del suo operato, come nel monologo sul male “la nostra, incoffesabile contraddizione: perpetuare il male per garantire il bene. Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta e invece è la fine del mondo. E noi non possiamo consentire lafine del mondo in nome di una cosa giusta. Abbiamo un mandato, noi. Un mandato divino. Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per avere il bene. Questo Dio lo sa. E lo so anch’io”. Forse Andreotti non l’ha mai neppure pensato, ma il Potere sì; e in Italia l’ha messo anche in pratica. Fotografia di Luca Bigazzi; musiche eclettiche (Renato Zero, Ricchi e Poveri, Trio, Fauré, Sibelius…) assemblate da Teho Teardo. Premio della giuria a Cannes, e buon successo internazionale. Sottotitolo: La Straordinaria Vita di Giulio Andreotti.