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This Must Be The Place


“And you’re standing here beside me/I love the passing of time/Never for money/Always for love /Cover up and say goodnight . . . say goodnight/Home – is where I want to be/But I guess I’m already there/I come home – she lifted up her wings/Guess that this must be the place”.

Il testo della canzone dei Talking Heads

Cheyenne (Sean Penn) è stato una rockstar nel passato. All’età di 50 anni si veste e si trucca come quando saliva sul palcoscenico e vive agiatamente, grazie alle royalties, con la moglie Jane (Frances McDormand) a Dublino. La morte del padre, con il quale non aveva più alcun rapporto, lo spinge a tornare a New York. Scopre così che l’uomo aveva un’ossessione: vendicarsi per un’umiliazione subita in campo di concentramento. Cheyenne decide di proseguire la ricerca dal punto in cui il genitore è stato costretto ad abbandonarla e inizia un viaggio attraverso gli Stati Uniti.

Diviso in due parti, una prima “sonora” e una seconda “verbosa”, il nuovo film di Sorrentino è tanto controllato quanto delirante. Per i primi minuti si ha l’impressione di stare davanti ad un capolavoro. Anche se non originalissimo nella sceneggiatura – frammentata – del regista insieme ad Umberto Contarello, e con, alle volte, un eccessivo tono lacrimevole, dimostra però il coraggio di chi non si è mai fatto corrompere davvero dai falsi miti del benessere e di chi non ha paura di rischiare in nome dell’Arte, in un mondo in cui tutti si definiscono artisti ma seguono le mode. Non manca comunque una certa ambiguità di fondo e sarebbe stato meglio alleggerirlo di una decina di minuti almeno. Abilissimo l’uso della macchina da presa di Sorrentino. Colonna sonora, montaggio, fotografia e scenografia (coronata spesso dal fumo di tabacco tanto caro al regista – vedi per esempio Le Conseguenze dell’Amore ) studiati meticolosamente e di un fascino suggestivo, meriterebbero un premio.

Il Divo


Dalla fine del suo ultimo governo nel 1992 al processo di mafia da cui usciraà assolto: il declino del potere di Giulio Andreotti (Toni Servillo) e della sua corrente, che comprende tra gli altri Cirino Pomicino (Carlo Buccirosso), Franco Evangelisti (Flavio Bucci), Vittorio Sbardella (Massimo Popolizio) e Salvo Lima (Giorgio Colangeli), ucciso dalla mafia nel 1992.
Sorrentino, anche sceneggiatore con la consulenza giornalistica di GIuseppe D’Avanzo, intreccia pubblico e privato (il rapporto con la moglie Livia [Anna Bonaiuto] e la fedele segretaria Enea -Piera Degli Espositi-; e alterna scene ipotetiche (il presunto incontreo di Andreotti con Totò Riina) e altre basate sui fatti (il rapporto con Aldo Moro -Paolo Graziosi-). Non intende stabilire la verità sulle tante responsabilità dello statista democristiano (dall’omicidio Pecorelli alla loggia P2), ma tracciare un affresco dell’Italia della Prima Repubblica. E per capire la politica, non ricorre alla denuncia, ma alla deformazione grottesca e iperrealista, forte di uno stile pirotecnico che inventa soluzioni diverse per ogni sequenza. Il “divo” Giulio ne esce in tutta la sua ambiguità, volta a volta rimpicciolito (come quando la moglie ridimensiona la sua celebrata intelligenza) o ammantato da un’aura fosca e tragica. Ma Sorrentino non cede alsuo fascino, e sa smontare le implicazioni del suo operato, come nel monologo sul male “la nostra, incoffesabile contraddizione: perpetuare il male per garantire il bene. Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta e invece è la fine del mondo. E noi non possiamo consentire lafine del mondo in nome di una cosa giusta. Abbiamo un mandato, noi. Un mandato divino. Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per avere il bene. Questo Dio lo sa. E lo so anch’io”. Forse Andreotti non l’ha mai neppure pensato, ma il Potere sì; e in Italia l’ha messo anche in pratica. Fotografia di Luca Bigazzi; musiche eclettiche (Renato Zero, Ricchi e Poveri, Trio, Fauré, Sibelius…) assemblate da Teho Teardo. Premio della giuria a Cannes, e buon successo internazionale. Sottotitolo: La Straordinaria Vita di Giulio Andreotti.

L’Amico di Famiglia



Geremia de’ Geremei (Giacomo Rizzo) ha settant’anni. Vive in una cittadina dell’Agro Pontino ed è proprietario di una piccola sartoria. Brutto e sgraziato vive in una casa buia con la madre paralizzata. La sua vera fonte di guadagno (rigorosamente depositato in cassette di sicurezza) è però l’usura.

Le Conseguenze dell’Amore


Contabile della mafia, da dieci anni in Svizzera per riciclare denaro sporco, Titta Di Girolamo (Toni Servillo) si innamora della barista (Olivia Magnani) dell’hotel in cui risiede, e per regalarle un’auto usa soldi non suoi. Quando due killer cercano di derubarlo, lui fa sparire l’ingente refurtiva: ma il mancato incontro con la ragazza (per pura fatalità) lo spinge ad accettare passivamente la punizione dei suoi “datori di lavoro”.
Storia di una ribellione al potere che diventa riscatto morale: inizia come un’avventura sentimentale (“Non sottovalutare le conseguenze dell’amore”, scrive su un foglietto il protagonista), ma prosegue con l’ostinazione delle decisioni estreme, prese da una persona che per sentirsi viva non può far altro che morire. Sorrentino (autore anche della sceneggiatura) cambia genere e stile dopo l’esordio con L’Uomo In Più : gioca di sottrazione per descrivere la “prigione senza sbarre” in cui è costretto Titta (metodico sia nel giocare a carte con gli ex proprietari dell’albergo sia nell’iniettarsi ogni mercoledì mattina 10 milligrammi di eroina), e alterna morbidi movimenti di macchina a un montaggio sincopato (di Giogiò Franchini) per descrivere un mondo nel quale anche il fumo della sigaretta sembra sotto controllo, ma dove tutto alla fine esplode. Anche se un eccesso di didascalico espressionismo (il processo mafioso) e di poeticismo (l’amico che lavora in montagna) appesantiscono un pò troppo il finale. Belle musiche di Pasquale Catalano. Olivia Magnani è la nipote di Anna. A sorpresa, cinque David: miglior film, regia, sceneggiatura, attore protagonista e fotografia (Luca Bigazzi).

L’Uomo In Più


Napoli, anni Ottanta: le decadenze parallele del cantante Tony Pisapia (Toni Servillo), cui piacciono troppo la coca e le ragazzine, e dello stopper Antonio Pisapia (Andrea Renzi), che dopo essere stato azzoppato cerca invano di diventare un allenatore.
Le due storie sono legate da parallelismi semi-fantastici e da sottolineature simboliche alla Kieslowski, a volte ridondanti (a cominciare dall’omonimia dei personaggi). E’ una delle contraddizioni di un film che cerca di tessere l’elogio dei perdenti e di raccontare una realtà sfaccettata e sordida, spesso riuscendoci. Notevole sfoggio stilistico da parte dell’esordiente regista-sceneggiatore. Fotografia di Pasquale Mari. La vicenda del calciatore sembra echeggiare quella del povero Agostino Di Barlolomei.