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L’amore che resta (Restless), di Gus Van Sant (2011)


Enoch è un ragazzo che ha perso i genitori in un incidente stradale, a seguito del quale è rimasto in coma per tre mesi. Da allora si “imbuca” nei funerali degli altri nel tentativo disperato di rielaborare il proprio lutto. E’ in una di quelle occasioni che conosce la coetanea Annabel, la cui vitalità sembra porsi in contrasto con  la sua inquietudine e l’ossessione per la morte, ma con la quale scoprirà di avere parecchie cosa da dividere. L’eccezionale amore di lei per la vita e la natura cela invero i timori per una grave malattia che rischia di portarsela via a breve. Tra i due si instaura un insolito rapporto che sfocerà in una delicata relazione sentimentale, e che permetterà a entrambi di affrontare il proprio futuro con ritrovata serenità.

Van Sant torna a raccontarci storie di adolescenti fragili e ribelli, questa volta con una delicatezza e una dolcezza che fanno quasi dubitare circa la paternità dell’opera. Emerge una sensibilità di cui solo i grandi registi sono dotati (e, beninteso, il buon Gus lo è), e il risultato è davvero delizioso. Merito certamente dello sguardo magistrale del regista, come della bontà della pièce teatrale da cui il lungometraggio è tratto, “Of Winter and Water Birds” dell’attore Jason Lew, autore anche di soggetto e sceneggiatura sospinti dall’iniziativa della famiglia Howard (producono papà Ron e figlia Bryce Dallas). Ma anche e soprattutto delle meravigliose interpretazioni di due sicuri astri nascenti del cinema a stelle e strisce che rispondono al nome di Mia Wasikowska (l’Alice di Burton, ma qui decisamente più in forma), e dell’esordiente Henry Hopper, che somiglia in maniera impressionante al padre Dennis, indimenticabile mito del cinema americano indipendente!

Altra nota caratteristica “inusuale” di questo film è la colonna sonora, placida e introspettiva, eseguita da un Danny Elfman lontanissimo dalle sonorità vertiginose cui siamo abituati ad ascoltarlo, e con alcuni brani composti e suonati direttamente dallo stesso Van Sant.

Il tema è quello, invero non semplice, del rapporto con la morte dal punto di vista adolescenziale (i protagonisti di “Departures” partivano già da un’età più matura), il dolore per la perdita delle persone care, la difficoltà di ridare un senso all’esistenza a seguito di eventi drammatici che ne hanno sconvolto i contenuti. Se Enoch stenta a misurarsi con il destino che nell’immediato passato lo ha voluto orfano di entrambi i genitori e a contatto diretto con la morte, Annabel deve fare i conti con un futuro brevissimo ed annunciato. I due si incontrano sul terreno del presente da vivere intensamente, decidono di amarsi pur nella consapevolezza di una imminente triste separazione, ma, riempiendo d’amore le loro esistenze, imparano a “perdersi” in un ricordo che non passerà mai.

Il racconto naviga lievemente, a dispetto della “pesantezza” della tematica, senza disdegnare momenti di buonumore, riuscendo a non cedere alle tentazioni del melodramma e della retorica, fino all’emozionante finale in cui Enoch prende la parola per realizzare, senza aprir bocca, il valore incommensurabile dei mille attimi di felicità che ben valgono un sorriso più delle lacrime. Un bel film, passato un po’ in sordina per le sale, ma che merita la visione per l’elevatezza dei valori che propugna. Voto: 8.

Paris, je T’Aime


L’amore per una città, descritto in venti episodi – della durata di cinque, sei minuti ciascuno – diretti da altrettanti registi, fra cui spiccano Steve Buscemi e il nostro Sergio Castellitto. Ci avevano provato quarant’anni fa – con un notevole risultato – alcuni dei registi più accreditati della Nouvelle Vague, producendo Paris Vu par, una dichiarazione d’amore in sei atti che conquistò il pubblico internazionale. A distanza di quasi mezzo secolo ci riprovano venti registi (Joel e Ethan Coehn, Wes Crafen, Gerard Depardieu), mettendosi alla prova con una delle forme cinematografiche più complesse e macchinose: il cortometraggio.  Il Film collettivo ha riscosso molti applausi da parte di pubblico e critica. Piccola curiosità, ogni episodio racconta l’amore visto attraverso i diversi quartieri (arrondissement) che dividono la capitale francese, portando a termine un affresco romantico sulla città incantata che tanto piacerà al nostro pubblico. L’episodio “Parc Monceau” diretto da Alfonso Cuaron, inoltre, è girato in un unico piano sequenza. Un giro turistico verso l’amore.

” Love is in the air everywhere I look around
Love is in the air
Every sight and every sound… ”

“L’amore è nell’aria ovunque mi guardo intorno”

Premetto che non sono un amante dei film “Sdolcinati” o di quelli che parlano di un amore D.O.C, standardizzato per intenderci. Per questo motivo mi sento di straconsigliarvi questo film, lo reputo un capolavoro…e come tanti altri capolavori purtroppo ( o per fortuna)..non è mai arrivato in Italia se non con una versione sottotitolata. Per fortuna perchè, vedere questo film in lingua originale è un esperienza unica e credo che la stessa lingua francese attribuisca all’opera un estetica visiva e sonora unica.

Come dicevo prima non amo i film “sdolcinati” e questo film non lo è per niente nonostante parli sempre e solo d’amore; Un amore che come un soffio di vento vaga per gli arrondissement francesi assumendo sempre una sfumatura diversa, un sapore un odore diverso come diversa è la situazione che di volta in volta ci troveremo ad osservare. Ho visto recentemente questo film ed ho apprezzato ogni singolo istante della pellicola anche se ovviamente, essendo il film composto da 20 cortometreggi, alcuni li ho preferiti ad altri.

Non solo vi invito alla visione di questo film ma mi farebbe piacere sapere quale, dei 20 corti, è il vostro preferito.

Buona visione