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Il Divo


Dalla fine del suo ultimo governo nel 1992 al processo di mafia da cui usciraà assolto: il declino del potere di Giulio Andreotti (Toni Servillo) e della sua corrente, che comprende tra gli altri Cirino Pomicino (Carlo Buccirosso), Franco Evangelisti (Flavio Bucci), Vittorio Sbardella (Massimo Popolizio) e Salvo Lima (Giorgio Colangeli), ucciso dalla mafia nel 1992.
Sorrentino, anche sceneggiatore con la consulenza giornalistica di GIuseppe D’Avanzo, intreccia pubblico e privato (il rapporto con la moglie Livia [Anna Bonaiuto] e la fedele segretaria Enea -Piera Degli Espositi-; e alterna scene ipotetiche (il presunto incontreo di Andreotti con Totò Riina) e altre basate sui fatti (il rapporto con Aldo Moro -Paolo Graziosi-). Non intende stabilire la verità sulle tante responsabilità dello statista democristiano (dall’omicidio Pecorelli alla loggia P2), ma tracciare un affresco dell’Italia della Prima Repubblica. E per capire la politica, non ricorre alla denuncia, ma alla deformazione grottesca e iperrealista, forte di uno stile pirotecnico che inventa soluzioni diverse per ogni sequenza. Il “divo” Giulio ne esce in tutta la sua ambiguità, volta a volta rimpicciolito (come quando la moglie ridimensiona la sua celebrata intelligenza) o ammantato da un’aura fosca e tragica. Ma Sorrentino non cede alsuo fascino, e sa smontare le implicazioni del suo operato, come nel monologo sul male “la nostra, incoffesabile contraddizione: perpetuare il male per garantire il bene. Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta e invece è la fine del mondo. E noi non possiamo consentire lafine del mondo in nome di una cosa giusta. Abbiamo un mandato, noi. Un mandato divino. Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per avere il bene. Questo Dio lo sa. E lo so anch’io”. Forse Andreotti non l’ha mai neppure pensato, ma il Potere sì; e in Italia l’ha messo anche in pratica. Fotografia di Luca Bigazzi; musiche eclettiche (Renato Zero, Ricchi e Poveri, Trio, Fauré, Sibelius…) assemblate da Teho Teardo. Premio della giuria a Cannes, e buon successo internazionale. Sottotitolo: La Straordinaria Vita di Giulio Andreotti.

Le Conseguenze dell’Amore


Contabile della mafia, da dieci anni in Svizzera per riciclare denaro sporco, Titta Di Girolamo (Toni Servillo) si innamora della barista (Olivia Magnani) dell’hotel in cui risiede, e per regalarle un’auto usa soldi non suoi. Quando due killer cercano di derubarlo, lui fa sparire l’ingente refurtiva: ma il mancato incontro con la ragazza (per pura fatalità) lo spinge ad accettare passivamente la punizione dei suoi “datori di lavoro”.
Storia di una ribellione al potere che diventa riscatto morale: inizia come un’avventura sentimentale (“Non sottovalutare le conseguenze dell’amore”, scrive su un foglietto il protagonista), ma prosegue con l’ostinazione delle decisioni estreme, prese da una persona che per sentirsi viva non può far altro che morire. Sorrentino (autore anche della sceneggiatura) cambia genere e stile dopo l’esordio con L’Uomo In Più : gioca di sottrazione per descrivere la “prigione senza sbarre” in cui è costretto Titta (metodico sia nel giocare a carte con gli ex proprietari dell’albergo sia nell’iniettarsi ogni mercoledì mattina 10 milligrammi di eroina), e alterna morbidi movimenti di macchina a un montaggio sincopato (di Giogiò Franchini) per descrivere un mondo nel quale anche il fumo della sigaretta sembra sotto controllo, ma dove tutto alla fine esplode. Anche se un eccesso di didascalico espressionismo (il processo mafioso) e di poeticismo (l’amico che lavora in montagna) appesantiscono un pò troppo il finale. Belle musiche di Pasquale Catalano. Olivia Magnani è la nipote di Anna. A sorpresa, cinque David: miglior film, regia, sceneggiatura, attore protagonista e fotografia (Luca Bigazzi).

L’Uomo In Più


Napoli, anni Ottanta: le decadenze parallele del cantante Tony Pisapia (Toni Servillo), cui piacciono troppo la coca e le ragazzine, e dello stopper Antonio Pisapia (Andrea Renzi), che dopo essere stato azzoppato cerca invano di diventare un allenatore.
Le due storie sono legate da parallelismi semi-fantastici e da sottolineature simboliche alla Kieslowski, a volte ridondanti (a cominciare dall’omonimia dei personaggi). E’ una delle contraddizioni di un film che cerca di tessere l’elogio dei perdenti e di raccontare una realtà sfaccettata e sordida, spesso riuscendoci. Notevole sfoggio stilistico da parte dell’esordiente regista-sceneggiatore. Fotografia di Pasquale Mari. La vicenda del calciatore sembra echeggiare quella del povero Agostino Di Barlolomei.